ARTICOLI E NOTIZIE SULL'INCESTO E LA PEDOFILIA E COME COMBATTERLI.

mercoledì 27 agosto 2008

UNA DONNA RACCONTA LA SUA ORRIBILE STORIA D'INCESTO CON IL PADRE PEDOFILO

Oggi è Giovedì 28 Agosto.
Donna Moderna


Io, vittima di un padre pedofilo

Ogni giorno ci sono bambini che subiscono abusi da parte degli adulti. E restano segnati per sempre. Come è successo a Ginevra, che ha voluto raccontarci la sua esperienza. E dirci che da questo inferno ci si può salvare

di Antonella Trentin
23/6/2003

È la nostra forma di autodifesa contro quell’orrore quotidiano chiamato pedofilia. Appena finiamo di leggere una nuova storia di bambini e violenze, cancelliamo subito dalla mente quegli adulti a caccia di piccole vittime. Sbagliamo. Perché loro, gli orchi, ci sono sempre: travestiti da padri, zii, amici di famiglia, perfino sacerdoti. Basta sfogliare i giornali dell’ultimo mese. Il 3 maggio è stato arrestato un prete bergamasco che finanziava un gruppo di pedofili e spartiva con loro i bambini adescati. Il 10 maggio è finito in galera un pregiudicato di Trapani: violentava la figlia di 11 anni, minacciandola con un coltello.
Il 29 maggio 400 persone in tutta Italia sono state indagate per aver scambiato su Internet foto pornografiche di bambini. Drammi troppo spesso dimenticati, su cui il criminologo Massimo Picozzi e l’ispettore di Polizia Michele Maggi hanno appena scritto un libro, pubblicato da Guerini: si intitola "Pedofilia, non chiamatelo amore". Questo amore mostruoso lo ha vissuto anche Ginevra, 40 anni, di Arezzo, un marito e due figli adolescenti.

Bellissima e tenera, lascia scivolare lacrime mute dai grandi occhi verdi: «Voglio parlare della mia storia, perché non si deve mai abbassare la guardia» dice. «I bambini che subiscono abusi lanciano sempre dei segnali forti: sono introversi, hanno uno sguardo rassegnato, spesso sono anche autolesionisti. Parenti, insegnanti, vicini di casa devono saper ascoltare le loro grida silenziose. Non si può girare la testa da un’altra parte».
Nel suo caso l’hanno fatto?
«Per fortuna no. Anche se i miei compagni di classe mi isolavano perché fiutavano la mia diversità, la scuola è stata la mia salvezza. Devo dire grazie a due professori: spesso mi vedevano piangere davanti a un foglio bianco. E, a furia di insistere e fare domande, mi hanno tirato fuori la verità».
Quale verità?
«Per anni mio padre ha abusato di me. Li chiamava “i nostri giochi segreti”. Era l’unica forma d’amore che sapeva darmi. Per il resto, solo botte».
E sua madre?
«Mia mamma è morta quando avevo quattro anni. Mio padre era innamoratissimo di lei. La sua scomparsa, e una famiglia cattiva e indifferente alle spalle, hanno fatto di lui un uomo sbandato e malato. Qualcuno avrebbe dovuto aiutarlo, invece c’ero solo io».
Quando suo padre ha rivolto le sue attenzioni sessuali verso di lei?
«Avevo otto anni. Durante la settimana vivevo con i nonni materni e gli zii, perché papà non era in grado di badare a me. Lo vedevo nei weekend. E, ogni sabato e domenica, quei giochi segreti si ripetevano. In una stanza sudicia e triste. Io lo odiavo e gli volevo bene allo stesso tempo: era l’unico genitore che mi era rimasto».
Non ha mai detto nulla ai suoi nonni?
«Non ammettevo neppure con me stessa che ci fosse qualcosa di strano».
E quando lo ha capito?
«Con il mio primo fidanzatino, a 14 anni. Volevo che mi coccolasse, che mi volesse bene. Ma carezze un po’ più intime, mai. Siamo andati avanti così per un anno. Io continuavo a dirgli: “Tu non capisci”. Alla fine, sono sbottata: “I rapporti fisici con te non funzionano perché tu non fai come il mio papà”. Ecco, la bomba era esplosa».
Allora ha parlato alla sua famiglia?
«Sì. Sono stati i miei professori a insistere: “Coraggio, ora torni a casa e ti togli questo peso” mi dicevano. Alla fine, mia zia mi ha preso da parte ed è riuscita a farsi raccontare tutto».
Poi che cosa è successo?
«Lei mi ha portato via: siamo andate a passare le vacanze estive su un’isola. Ma ogni notte, quando sentivo un rumore, mi svegliavo di soprassalto: avevo paura che papà fosse tornato a prendermi. Lui arrivava sempre quando meno me lo aspettavo, magari mentre ero in spiaggia con i miei amici, e mi picchiava davanti a tutti. Per fortuna, quell’estate non mi trovò. E non ci siamo visti per un anno intero».
Vi siete chiariti?
«Mai. Dopo aver confessato tutto a mia zia, gli ho scritto una lettera: gli dicevo che mi aveva fatto male e che dovevamo stare lontani. Quando mi ha rivisto, molto tempo dopo, mi ha aggredito: “Dobbiamo parlare noi due, perché lettere come quella non mi piacciono”. Poi è piombato il silenzio».
Ha mai denunciato suo padre?
«No. Non volevo fargli del male. E io non volevo finire in un tribunale».
Come ha superato il trauma?
«Ci sono voluti anni. Mi sentivo sporca, colpevole. So che è assurdo, ma avrei voluto che fosse mio padre ad aiutarmi, desideravo tanto un abbraccio, una manifestazione di affetto disinteressato. Non è mai arrivata. Così mi sono rivolta a uno psicologo che cura i problemi dell’infanzia, e mi sono sottoposta all’ipnosi per cinque mesi».
Questa esperienza come ha cambiato la sua vita sessuale?
«È rimasta un’ombra. Ancora oggi, mi capita di ripetere gli stessi gesti, le carezze che ricevevo da mio padre. Per fortuna, ho incontrato Paolo, mio marito, un uomo generoso, caro, intelligente. Abbiamo impiegato anni a trovare il nostro modo di fare l’amore».
Qual è stato l’ostacolo maggiore?
«La bambina che era rimasta in me. Veniva sempre fuori: facevo i capricci, esigevo un’attenzione costante, cambiavo addirittura voce. Tutto in nome della mia infanzia bruciata. Ho sofferto anche di pesanti crisi depressive: non riuscivo a capire chi fossi».
Com’è riuscita a diventare grande?
«Mio marito mi ha sempre avvolto nel suo immenso affetto. E anche gli amici. Ma, soprattutto, avevo un sogno: costruire una famiglia normale. Alla fine ce l’ho fatta. È questo che vorrei dire ai bambini vittime di abusi: che possono riconquistare la propria vita. Mai piangersi addosso: ognuno ha dentro di sé la forza giusta per reagire. Io, per esempio, ho imparato a non farmi travolgere dalle cose brutte della vita, a trasformare sempre il nero in rosa».
E suo padre?
«È morto. Era ridotto come un barbone: viveva solo in una casa piena d’immondizia, malato di cancro. Io ho passato con lui gli ultimi giorni di vita, stando accanto al suo letto d’ospedale notte e giorno. “Sono con te, papà” gli ho detto “e ti perdono”. Lui, poco prima di morire, si è lasciato andare: “Ho sbagliato, ti ho fatto soffrire”. È morto sereno. Il cerchio si era chiuso, la mia rabbia era volata via».

Articolo tratto da Donna moderna



http://www.sosinfanzia.org/2003/testi2003/Donna_moderna.asp

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